Erika B. Riot



"Il valore delle parole scritte" 

Personalmente sono rimasto molto colpito dal racconto della protagonista di oggi che ospitiamo sul nostro blog. È sicuramente una ragazza con gli attributi, Erika, che un po’ si mette a nudo, così come nella sua opera. 
Conosciamola…
Sono Erika, B. Riot è semplicemente uno pseudonimo che uso da anni, deriva dal titolo di una canzone dei 30 seconds to Mars. L’ho adottato anni fa quando mi occupavo di selezione del personale e il mio capo mi aveva suggerito di rendermi irrintracciabile sui social col mio vero nome. Ho 33 anni, vivo a Bergamo e questo è il mio primo libro.
Qual è il tuo libro preferito? 
È una domanda difficile, ce ne sono tanti e per tanti motivi diversi. Diciamo che tutti i primi libri di Palahniuk li ho divorati e amati follemente. Di Terzani non ho letto ancora tutto, mi mancano “La fine è il mio inizio” e “Un altro giro di giostra” che ho appena iniziato, ma mi piace definirlo IL MAESTRO. 
Domanda classica: Perché hai scritto il tuo libro? 
Diciamo che ho sempre saputo che prima o poi l’avrei scritto: è una storia personale, una storia intima che ho cercato più volte negli anni di fare uscire allo scoperto perché parlarne non bastava. La parola scritta ha sempre un peso specifico maggiore rispetto a quello che puoi dire a voce. Ho provato tante volte in passato a rendere giustizia a questa storia ma non sapevo da dove cominciare, mi fermavo davanti al foglio bianco che mi guardava. Poi un giorno è successa una cosa che mi ha fatto paura: ho ricevuto una chiamata da parte della mia banca, che mi avvisava che mia madre era lì e chiedeva quale fosse il mio saldo. Dicevano che stava strepitando, convinta che io le avessi rubato dei soldi. Ricostruendo i fatti, ho poi scoperto che si era affidata ad un avvocato per un’indagine giudiziale, grazie alla quale ha potuto sapere dove vivevo, dove lavoravo, quale era la mia banca di appoggio. Ho avuto il terrore che si presentasse anche sul mio luogo di lavoro facendo le stesse scenate che aveva fatto in banca, il terrore di perdere il lavoro perché il mio capo sapevo che non avrebbe certo tollerato un’irruzione tanto teatrale. È stato quel terrore che ha mosso la mia mano, che mi ha fatto scrivere in tre settimane la prima bozza del libro. Volevo testimoniale quello che ci era successo prima di rischiare di finire sulle pagine di cronaca.  
Cosa hai provato nel vedere la tua opera finita?
È stato sicuramente emozionante, ma sapevo che il bello doveva ancora venire. Avevo scritto questo romanzo-realtà, l’avevo pubblicato, ora mancava la parte più importante: farlo arrivare al pubblico. Ho avuto la fortuna che tre giorni dopo la pubblicazione era già comparsa su Amazon la prima recensione. Io non lo avevo ancora pubblicizzato, eppure quelle 5 stelline da parte di una sconosciuta erano lì ad incoraggiarmi. È stata quella la prima vera soddisfazione.
Quel è stata la più grande difficoltà nello scrivere? 
Il cercare di non ferire nessuno. Quando parli di fatti realmente accaduti, inevitabilmente qualcuno ci rimarrà male. Succede anche con la fiction a dire il vero: ci sarà sempre quella persona che capisce che il tal personaggio è ispirato a lei e che avrebbe voluto essere rappresentata diversamente. Ho cercato di restare fedele alla realtà senza accusare nessuno, senza dipingere figure negative. Avevo paura di poter essere accusata di vomitare risentimento sulle mie pagine, invece ho ricevuto tanti apprezzamenti per la delicatezza con cui sono state descritte persone e situazioni. 
Quanto tempo è passato dall’idea alla pubblicazione? 
Lo scheletro del manoscritto l’ho scritto nel 2017, in un periodo in cui ero particolarmente spaventata.  Lo stesso anno l’ho affidato all’editor, per scovare eventuali errori e capire se fosse fruibile da chiunque. Quando abbiamo deciso che il libro era pronto per prendere la sua strada, l’ho inviato a qualche decina di case editrici. Ho ricevuto tanti no e qualche sì, oltre a qualche richiesta che secondo me avrebbe snaturato la struttura stessa del libro, come togliere le citazioni delle canzoni all’inizio dei capitoli oppure aggiungere anche qualche evento non vero per renderlo più avvincente. Mi sono rifiutata. L’ho letto e riletto tante volte che mi è venuta la nausea, e poi l’ho lasciato lì in un cassetto. Durante questo 2020 mi è capitato di pensare “adesso è passato un po’ di tempo, magari posso finalmente riprendere in mano il mio manoscritto” e così è stato, complice anche l’inizio della quarantena. Mi sono resa conto che nella prima stesura avevo dato troppe cose per scontate, troppi fatti raccontati come se fossero banali ma che avevano bisogno di descrizioni più accurate per poter entrare nel cuore della gente o anche solo per essere comprese adeguatamente. Il pubblico aveva bisogno di spiegazioni. Dopo l’ennesima rilettura l’ho pubblicato con Amazon, prima che mi venisse di nuovo a noia.
Se dovessi definire il tuo libro con un aggettivo? 
C’è chi lo ha definito drammatico e probabilmente ha ragione. Per me è anche viscerale.
Ci descrivi un po’ di cosa parla?
È un viaggio attraverso la mia esperienza, quella di una bambina che si trova suo malgrado ad essere l’unica caregiver della mamma, la quale soffre di schizofrenia paranoide e a causa della sua patologia tende ad isolarsi e ad allontanare in malo modo chiunque provi ad entrare in contatto con lei. Di conseguenza, anche io proverò sulla mia pelle tutto l’isolamento e l’orrore che possono nascere dai mostri nella mente di mia madre. Provo più volte a chiedere aiuto, ma sembra che nessuno voglia riconoscere la patologia. La parola “schizofrenia” fa ancora paura e il risultato di una sottostima del problema è spesso un’escalation di violenza. Allo stato attuale, inoltre, non c’è modo di obbligare una persona non consapevole della propria malattia a curarsi. Attraverso la mia esperienza ho voluto quindi cercare di sensibilizzare il pubblico a un tema delicato come questo, fargli capire che è disumano affidare la responsabilità della gestione di una malattia come questa esclusivamente alla famiglia, c’è bisogno di una riforma, ma prima di tutto di vicinanza.
Sei soddisfatto dell’opera?
Sì. Ma so anche che, se dovessi rileggerla oggi, troverei altri punti da riformulare in maniera diversa. Quando cresciamo, quando maturiamo, la nostra scrittura matura con noi. Tovo fondamentale però non andare a fare altre riedizioni: è giusto che in “Non è poesia” ci sia tutta l’emotività grezza da cui è nato.
Se tornassi indietro di qualche giorno/mese, quale errore non faresti?
Sinceramente? Nessuno. Sono soddisfatta di chi sono e dove sono, cambiare qualcosa nel passato significherebbe cambiare anche il presente.
Quanto ti è stata d’aiuto la casa editrice per l’editing, la promozione del libro, ecc? 
Ho fatto tutto da sola, dall’autopubblicazione su Amazon allo spam in ogni dove. I miei amici non mi sopportano più, vedono che parlo di “Non è poesia” ovunque.
Scriverai ancora? Hai già un’idea?
Sì, ho già quasi finito un libro di stampo totalmente diverso, profondamente sarcastico. Ho anche una cartella con tutte le ricerche che ho fatto per elaborare i personaggi di una storia d’amore, vedremo.

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