"Fino alle fine della mia" di Andretta Baldanza

 

Oggi abbiamo il grande piacere di condividere il nostro caffè virtuale con Andretta Baldanza.

Mi correggo subito, più che un caffè, dobbiamo scegliere tra una Guinness e un Irish coffe, infatti la nostra autrice ha un debole per l’Irlanda e la Scozia, tanto che i suoi lavori sono ambientati al di là della Manica o comunque tra le onde del mare dei Vichinghi.

Prima di addentrarci nell’intervista, non posso fare a meno di confidarvi il mio stupore per il nome della nostra autrice. Andretta, mai sentito prima.

Siamo troppo indiscreti se chiediamo direttamente a lei?

-Ciao Andretta, perdonami per la curiosità: ma da dove salta fuori il tuo nome di Battesimo?

Allora… la mitologia famigliare vuole che mio padre, quando lavorava a contatto col pubblico all’inizio della sua carriera, abbia incontrato una donna che portava questo nome e ne sia rimasto folgorato. Dal nome, non dalla donna. Tuttavia, mia mamma sostiene tutt’oggi che doveva senz’altro essere una donna piuttosto avvenente (non sono esattamente queste le parole che usa, ma mi hai capita…) altrimenti non gli sarebbe rimasta così impressa. Comunque… a quanto pare quel giorno mio padre decise che se avesse mai avuto una figlia, l’avrebbe chiamata Andretta.

 -Iniziamo con il gioco della torre: sei in cima, chi butti giù un pallone da rugby o una pinta bionda?

Questa è cattiveria! Dunque, considerando che del rugby mi piace l’ambiente ma assolutamente non lo gioco, direi che mi tengo la birra. Si può avere rossa?

 -Faccio il serio: iniziamo dal principio. Dove hai trovato l’ispirazione per i due romanzi sui Vichinghi?

 Ho iniziato a scrivere per una sorta di necessità. Era un momento della mia vita in cui avevo bisogno di buttare fuori una storia passionale e avevo cominciato con l’idea di scrivere un racconto di una decina di pagine, quindici al massimo, che parlassero di un rude guerriero ammorbidito da una schiava con un caratterino ‘che taglia e che cuce’ come avrebbe detto mia nonna. In quel periodo, per puro caso, conobbi un paio di ragazze che pubblicavano attraverso la piattaforma di Kindle e Amazon, di cui non sospettavo l’esistenza. Abbiamo fatto amicizia e hanno cominciato a chiedermi cosa stessi scrivendo, come si evolvesse la storia e insomma… non mi sono più fermata. Certo, ampliando la trama ho dovuto studiare e documentarmi (tutto è storicamente accurato), ma da un punto di vista puramente creativo è stato incredibile, si è praticamente scritto da solo, senza scherzi. Mi sedevo con un’idea e mi alzavo avendo scritto tutt'altro. Esaltante.

 -Il passaggio a scrivere “Lo spazio tra noi” come lo definisci, un’evoluzione, una fase diversa, o semplicemente un’ispirazione per un genere diverso?

 Lo definisco essere disperatamente indisciplinata! Io sono disordinata e disorganizzata (sigh!) e il mio cervello lo stesso: non so mai cosa mi stia per venire in mente, mi basta il vago ricordo di un sogno, o una notizia alla tv o che so io, due strofe di una canzone, e parto per la tangente.

 

-In questo lavoro, Malcom, il protagonista, vive sentimenti forti e in contrasto (amore, passione, dolore, paura). Quale tra questi è il sentimento che ti appartiene di più?

Assolutamente l’amore e la passione! Sono fermamente convinta che siano le cose per le quali vale la pena vivere, e quindi anche quelle di cui vale la pena scrivere. Non scrivo romance ‘puri’, nel senso che ci sono sempre elementi riconducibili ad altri generi nel mio lavoro, ma una storia passionale non manca mai. Cos'è la vita senza emozioni?

 -Ma l’amore vince su tutto?

Sempre e comunque! Qualunque tipo di amore.

 -Ultimo lavoro: “Fino alla fine della mia”. Sembra manchi la fine, cosa dobbiamo aspettarci?

 Il titolo è una frase ripresa da un dialogo all’interno della trama. So che sembra mozzato, ma giuro che nel contesto ha perfettamente senso! È una sorta di dichiarazione d’amore eterno.

 -Parlaci un po’ di questo libro: dove è ambientato, chi sono i protagonisti?

 

La trama si svolge a Edimburgo (come quella di “Lo spazio tra noi”), i due protagonisti sono Daniel (un operaio dei cantieri navali con un segretuccio) e Liam, un giocatore di rugby irlandese trasferitosi in Scozia per seguire la sorella minore, che ha vinto una borsa di studio alla facoltà di medicina di Edimburgo (che è la più antica del mondo). I due intrecciano una storia d’amore complicata (siamo nel 1991 in un paese fortemente cattolico) ma molto profonda e commovente.

 -Molto bella (anche) la copertina. Autoprodotta?

 Magari! No, ahimè sono una frana coi lavori grafici. Mi sono rivolta a un bravissimo professionista, che è riuscito a rendere, secondo me, in modo magnifico l’atmosfera del libro.

 -In generale, per quanto siano spesso ambientazioni fantastiche, quanto c’è della tua vita, del tuo carattere nei protagonisti?

Oh, qualcosina c’è. Il più evidente è il personaggio di Caylin Cameron, protagonista di “Lo spazio tra noi”, lei è praticamente il mio clone. È piccolina di statura e ha gli occhi verdi, ed è una nerd di prima categoria, appassionata di film e serie tv. Come me, le piace parlare per citazioni e infatti il libro è stato definito ‘un’opera citazionista’. Ci sono tantissime frasi tratte da libri e/o film famosi (tutte con la loro debita nota di spiegazione, naturalmente), per la maggior parte pronunciate da Caylin stessa. Inoltre, ha una casa colorata come la mia e una gatta rossa che si chiama Scarlaid in onore di Rossella O’Hara di “Via col vento” che è il suo (e mio) film preferito!

 

-Quando stabilisci che un tuo libro è finito? Dopo l’ultimo punto, o dopo averlo visto in carta&ossa?

 Un libro non è mai finito :-) ad esempio, la dilogia vichinga sarà libera dal contratto editoriale il prossimo luglio e sto già progettando di rimetterci mano, sistemare alcune ingenuità da ‘opera prima’ che mi sono sfuggite e lanciare una nuova edizione. Vedremo!

 -Si dibatte molto sulla libertà di pubblicare in self e di affidarsi ad una Casa editrice. Cosa ne pensi?

 Avendo fatto entrambe le esperienze, posso dire che personalmente preferisco Self. C’è meno prestigio e, a dire il vero, gli autori self a volte vengono un po’ denigrati, come se pubblicassero in quel modo perché nessuna casa editrice li vuole, ma in realtà è possibilissimo fare un lavoro accurato anche auto pubblicandosi, e c’è l’indubbio vantaggio di mantenere la completa proprietà dell’opera. Se voglio fare una promozione, la faccio. Se voglio portarla in fiera, la porto. Se voglio regalarla, la regalo. Se voglio cambiare il prezzo, lo cambio. Nel bene o nel male, hai la responsabilità di ciò che fai e questo per me è fondamentale. La C.E. spesso non ti promuove se non sui suoi canali (il suo sito, che guardano in tre se lo paragoniamo ad Amazon), non fa editing o lo fa

in modo poco accurato. I miei libri non sono praticamente stati toccati, perché «andavano già bene così» quando ho firmato, e come editor ho avuto a che fare con autori disperati che mi contattavano

dopo che la loro casa editrice aveva già revisionato il testo, dicendomi che la revisione faceva pena e chiedendomi di ri-editare il romanzo da capo. Perciò mi chiedo: a che pro?

 -Ti sei posta un obiettivo come scrittrice?

 Certo: tra un paio d’anni sarò come J. K. Rowling, solo più famosa :-)

 -A cosa stai lavorando adesso?

A un distopico. Te l’ho detto che sono indisciplinata, no? Ho messo insieme il covid, un fatto di cronaca accaduto durante il lockdown e mio nonno partigiano, ed eccomi qui. Sarà la storia di un rapimento, in realtà, ma in uno scenario post apocalittico in cui ci sono state tre pandemie, una guerra e il potere è andato nelle mani di un dittatore. In Europa restano solo dodici città abitate, la capitale New London le Undici Colonie. I protagonisti sono Declan Mallory, capo della cellula della resistenza che porta a termine il rapimento, e Tayla Perry-Windsor, la figlia del dittatore e vittima del sequestro. Siamo nel 2097.

 -Lascio a te la conclusione. Dicci pure ciò che vuoi…

Durante la stesura di “The viking chronicles”, come dicevo, ho studiato parecchio, perché volevo dare una certa accuratezza ai lettori. Gli avvenimenti sono tutti inventati, ma per quanto riguarda invece l’organizzazione sociale, la religione, riti, vita quotidiana ecc… è tutto documentato. Sono venuta così a sapere che l’immaginario che abbiamo dei vichinghi è tutto sbagliato. Non erano alti, non erano biondi e non portavano elmi con le corna, tanto per dire. La cosa più sorprendente, però, riguarda i riti matrimoniali. Erano molto complicati e comprendevano un pre-fidanzamento, poi un fidanzamento ufficiale e alla fine il matrimonio vero e proprio. Dopo le nozze, i due sposi erano incoraggiati a bere per un mese idromele l’uno dalla coppa dell’altro, per due ragioni: la prima era l’esigenza di aumentare l’intimità (i matrimoni erano spesso combinati) e la seconda è che il miele, da cui si ricava l’idromele, aumenta la fertilità (o così pensavano loro).

Quindi: un mese (cioè una luna) bevendo distillato di miele. Da qui la definizione di luna di miele.

Carino, eh?

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